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Una festa finita.
Un giro in giostra.
Con queste due metafore Rollingstone descrive 1990 di Achille Lauro, un omaggio al decennio ora tornato di moda che, sull'onda di Be my lover dei La Bouche mi riporta alla mente proprio quegli anni, il tagadà e gli autoscontri, le Buffalo con la zeppa, i primi capelli colorati mainstream, i remix orripilanti ma che tutti canticchiavano alzando le braccia.
Keith Flint (cantante dei Prodigy suicida nel 2019), le Spice girls, Britney Spears, He-Man.
Le facce degli anni '90: un po' tutti cartoon, alcuni di carne, altri di carta.
Sono solo alcuni dei simboli appesi a un muro dai colori lisergici.
Un letto a una piazza, a significare che siamo ancora in fondo dei bambini.
Cosa significa questo pezzo?
L'orrido fatto icona e l'impossibilità, a distanza di vent'anni, di liberarsene.
Come ci dice lo stesso Achille Lauro quando canta
Io no, io no, io no
Io no, io no
Io non dirò che muoio, no
Per lei, io no
Per lei, io no
Io non dirò che muoio, no
Il "lei" è del tutto accessorio, come del resto cade in secondo piano l'intera storia d'amore narrata, che sembra nient'altro che un espediente per dare voce a tutto il resto: la musica, il remix, i costumi, la scenografia.
E allora quel che mi chiedo è: parlerà di sè o forse proprio di quegli anni?
Una festa in fondo forse mai davvero finita.
E a non morire sono proprio gli anni '90.